Bircle vince K-idea Giovane del Kilometrorosso

Bircle è stato premiato ieri al Kilometrososso, parco scientifico-tecnologico alle porte di Bergamo, come una delle tre idee vincitrici del concorso K-idea Giovane, promosso da Kilometrorosso, Comune di Bergamo (presente Danilo Minuti, Assessore all’Istruzione, Politiche giovani, Sport e Tempo Libero del Comune) e Umanìa.

K-Idea Giovane

 

Il concorso, alla sua prima edizione, prende le mosse da K-idea, progetto lanciato da Kilometrorosso nel 2008 per condividere idee ed invenzioni, ma si rivolge ad un pubblico di innovatori under 30. In palio, tre borse di studio per i tre progetti, oltre alla possibilità di presentare la propria idea tanto al pubblico quanto ad una platea di esperti e di potenziali investitori.

Il premio darà a Bircle la possibilità di iniziare a lavorare sul territorio di Bergamo per pensare a dei percorsi accessibili nella città per renderla più fruibile a tutti coloro che hanno problemi di mobilità.

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Insieme a Bircle, premiati altri due progetti volti alla valorizzazione del territorio: “Trippete”, un portale on line per scoprire il territorio attraverso esperienze originali, nato da un’idea di Filippo Mazzetto e Giulio Longoni, e “Un’ora al giorno” di Irene Cocchio, che propone uno scambio tra l’amministrazione, che offre ai giovani alloggi a prezzi popolari per costruirsi una vita autonoma, e i giovani stessi che erogano un’ora al giorno di servizi utili per la società.

Tre gli orizzonti: quello di Expo 2015, per cui Bergamo, grazie al vicino aeroporto di Orio al Serio, sarà porta di accesso privilegiata, ma anche il 2019, anno per il quale Bergamo si è candidata come Capitale Europea della Cultura. A questi si aggiunge poi l’appuntamento con Bergamo Scienza, festival che riunisce esponenti di spicco del mondo scientifico a livello europeo e che si terrà a Bergamo ad ottobre: le idee, nel contesto di K-Idea all’interno dell’evento, avranno la possibilità di presentarsi di fronte ad un pubblico più ampio e variegato.

 

 

Bircle e i Changemakers sull’Arancia

Riportiamo oggi un articolo apparso sull’Arancia (http://www.larancia.org) dal tema:

“Dall’idea alla start up: cosa succede nel mezzo?” in relazione all’evento conclusivo di Changemakers.

Fonte: http://larancia.org/dallidea-alla-start-up-cosa-succede-nel-mezzo/

Ecco il pezzo:

Dall’idea alla start-up: cosa succede nel mezzo?

Venerdì 31 Maggio si è svolta a Milano la presentazione delle start-up che hanno partecipato a ChangeMakers for Expo 2015, un’iniziativa promossa da Expo e da Make a Cube per promuovere le idee più innovative nell’ambito del sociale. L’evento era in realtà la conclusione di un percorso di due mesi svolto dalle dieci start-up all’interno di Make a Cube, quella che in gergo viene chiamata “accelerazione”, ovvero un periodo di tempo breve in cui si cerca di risolvere tutte le problematiche che può avere una nuova società (che in qualche caso non lo è ancora) prima di entrare effettivamente nel mercato.

 

Durante l’evento abbiamo intervistato alcuni dei partecipanti chiedendo di spiegare a L’arancia cosa succede dal momento in cui si ha l’idea a quando si hanno gli strumenti per realizzarla. Quali erano le mancanze da colmare? Di che tipo di expertise avevano bisogno? E soprattutto, quando arrivano gli investitori?

 

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Daniela Runchi di Bircle

 

Qual è il vostro progetto?
Abbiamo creato un’applicazione mobile per vendere, creare e acquistare guide turistiche accessibili, ovvero itinerari arricchiti con indicazioni sull’accessibilità dei luoghi per i disabili motori.


In quanti lavorate a questo progetto?

Siamo in cinque, Andrea Landini e Marcello Coppa sono i fondatori, ci sono io, Giuditta Bianca Lurà che si occupa dei contenuti artistico-culturali, e Massimiliano Cocciniello che è il nostro designer. Ci siamo conosciuti all’università Bocconi un’anno fa, io mi sono avvicinata al progetto perché lavoravo con una associazione che si occupa di tempo libero per persone con disabilità.


Come è nata l’idea?

Andrea e Marcello avevano una società di comunicazione e lavoravano con un’azienda che si occupava di itinerari turistici accessibili nella zona dei laghi lombardi. Poi si sono resi conto che i dati sulla accessibilità dei luoghi erano praticamente inesistenti, quindi hanno pensato di costruire uno strumento che la valutasse. Ci siamo resi conto che  l’idea di “mappare il mondo” era tanto bella quanto ambiziosa, e senza una quantità di dati sufficienti non avremmo mai avuto un servizio utile, quindi abbiamo  cercato di aggirare l’ostacolo creando itinerari già stabiliti con tutte le informazioni sull’accessibilità. Poi le informazioni che raccogliamo finiscono in una mappa generale che è visibile a tutti.


Una volta stabilità l’idea, che cosa è successo?

Abbiamo iniziato a partecipare a una serie di bandi e concorsi, siamo arrivati a Change Makers, un acceleratore, e ci siamo occupati del lato della comunicazione (logo, claim, contatti) e di quello dello  sviluppo dell’applicazione: noi abbiamo lavorato su design e user esperience, ma la parte dello sviluppo è quella più onerosa economicamente, ed è per questa parte che stiamo cercando degli investitori.


Gli acceleratori e gli incubatori sono effettivamente utili?

Credo di sì, perché ti permettono di entrare in contatto con competenze di cui hai bisogno, e poi perché lavori con professionisti che sanno cosa bisogna fare a livello strategico per  entrare in un mercato che è ancora nuovo, come affrontare i problemi e come portare avanti l’idea.


E a che punto arrivano gli investitori?

Sia gli incubatori che gli acceleratori ti mettono in contatto con degli investitori, ma secondo me tanti investitori si conoscono “per caso”, partecipando a eventi, conferenze, presentando la propria idea a chi potrebbe essere davvero interessato.

 

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Serena Ruffato di Tooteko


In cosa consiste il vostro progetto?
Il nostro progetto si rivolge ai non vedenti e rende accessibili le opere d’arte. Abbiamo dei plastici tattili ai quali aggiungiamo delle tracce audio localizzate: quando un non vedente naviga questi plastici ha la possibilità di ottenere delle informazioni rispetto a quello che sta toccando. Non è più un’audio-guida completamente scollata da quello che lui sta toccando. Tocco un capitello e il capitello mi parla di se stesso.


Come vi è venuta l’idea?
L’idea è nata all’interno del master in architettura digitale, volevo indagare le varie forme di stampa tridimensionale nonché la prototipizzazione rapida, così ho pensato a questo progetto per non vedenti. Quando è stato il momento di aggiungere i contenuti a questi plastici abbiamo pensato di mettere il braille. Però ci siamo accorti che è un po’ limitativo: occupa spazio, è molto lungo, poi deve essere tradotto, dato che non è una lingua ma un alfabeto. Insieme a Fabio, mio relatore di tesi, ho detto, “Ci sarà sicuramente una tecnologia che permette, o comunque qualcuno lo avrà già pensato, di far parlare questi plastici per i non vedenti.” In realtà, nessuno ci aveva pensato. Allora abbiamo usato le schede termoformate,  inseriamo nei modelli un sensore APS-C che venga associato a questa nostra app, l’app riconosce la scheda tramite il sensore e quindi sa che contenuti applicare. Il nostro cellulare viene applicato sopra questa scatola che abbiamo costruito e tramite la fotocamera del cellulare riconosce la posizione della mano all’interno della scheda. E il cieco può avere i contenuti a casa propria.


Chi si occupa poi dell’effettiva realizzazione dei plastici?
Noi siamo architetti, tutti e tre, e seguiremo la parte di modellazione. Per la parte di scansione ci appoggia l’università IUAV di Venezia perché ha il laboratorio di fotogrammetria, che è in partnership con noi e segue la scansione delle opere originali. Invece per la produzione, siamo in partnership con una ditta di Trento che produce materie plastiche sottili e molto resistenti.


Avete bisogno anche di uno sviluppatore per l’applicazione o siete riusciti a farlo internamente?
Per ora siamo riusciti a farlo internamente, però sicuramente dovremo inserire nel team un programmatore. Ci tengo a sottolineare che il tutto parte con una collaborazione con l’Istituto ciechi di Milano, che ci aiuterà a sviluppare i contenuti audio e la parte tattile. La nostra difficoltà è trovare dei finanziamenti.


Avete già formato una società?
No, la società dobbiamo ancora aprirla. Chiaramente la apriremo qui, e a breve, per regolarizzare anche le nostre parti. Ora dobbiamo trovare degli investitori.


Mi sembra di capire che siano un problema comune a molti.
Eh, sì. Abbiamo dei prodotti che funzionano, chiaramente in laboratorio. Però poi da qui all’applicazione c’è da lavorare. Il materiale in realtà possiamo auto-costruircelo, non è quello il problema, però ci vuole davvero molto tempo e tutti quanti abbiamo un altro lavoro. Potrebbe anche non essere un investitore, ci basterebbe uno sponsor che metta il suo nome su un Tooteko e dica, “Ok, sperimentatelo,” o lo sperimentiamo insieme, insomma.

 

Sembra che per una start-up giovane la cosa più importante sia entrare subito in un settore specifico.
Sì. Noi tre siamo partiti come quelli che fanno toccare e parlare le cose, per tutti. Poi ci siamo accorti che l’idea non era molto chiara. Allora abbiamo ristretto il nostro campo d’azione e abbiamo scelto un target preciso e compatibile con i nostri interessi, con la nostra sensibilità. I risvolti poi sono infiniti. La necessità di focalizzare è nata soprattutto per ottimizzare i tempi, erano due mesi di acceleratore e c’era necessità di decidere dove concentrarsi.

 

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Lucia Rampanti di Upendu


Cos’è Upendu?
È un’application per lo scambio di beni e competenze delle proprie passioni, quindi tra comunità di persone che sono affini e scambiano all’interno di quello che amano fare.


Quando hai avuto l’idea?
Siamo stati in tre ad averla. È un progetto che è nato all’interno dell’Alta Scuola Politecnica. Questo è uno spin-off. Ci siamo concentrati nei mesi di changement, marzo e aprile, full time, quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. e in questi mesi abbiamo avuto una buona accelerata. E adesso siamo incubati al TREPI, a Torino, che è un acceleratore biotecnico di Torino.


Nel vostro team che ruoli avete?
Siamo Francesco Corazza, ingegnere informatico che si occupa dell’architettura IT, Andrea Poglio, che ha studiato architettura e costruzione città che sta sviluppando la user interface, e io, che ho studiato architettura. Però adesso mi sto riciclando nel marketing e nella comunicazione.


Te lo saresti aspettato di passare dall’architettura al marketing?
In realtà no.


Però ti sta piacendo?
Si perché metto un po’ a sistema quello che ho imparato nei cinque anni di architettura, alla fine la grafica, il saper comunicare, sapersi vendere, diciamo, in qualche modo aiuta sempre.


Siete riusciti a sviluppare il vostro progetto internamente o avete avuto bisogno di un appoggio esterno?
Tutto quello che è stato sviluppato fino ad oggi è nato internamente al gruppo. Con il bando Spinner dell’Emilia Romagna abbiamo avuto una risorsa in più, un ingegnere informatico, che si occupa di  back-end. Una risorsa di cui avremo bisogno in futuro è invece uno sviluppatore front-end.


A quanti bandi avete partecipato per adesso?
Abbiamo partecipato al bando Spinner e l’abbiamo vinto. Attualmente stiamo facendo uno Start-up camp che quest’estate potrebbe portarci a Berlino per un mese e mezzo.


Qual è la difficoltà che avete incontrato fino ad ora?
Forse sono due. La prima è il business plan: trattandosi di social innovation, non volevamo specularci sopra, però di fatto abbiamo dovuto trovare un modo per sostenerci economicamente. Poi c’è il dover comunicare il progetto all’esterno, perché è molto più facile usarlo che parlarne. Spesso è più semplice far vedere un esempio pratico che raccontare come funziona in astratto. È un ostacolo.

 

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Walter Bellante, Antonio Famulari e Michele Spina di PanPan


Potete raccontarci la vostra storia?
Siamo tre ragazzi siciliani, di Messina, Catania ed Enna, da qualche anno viviamo a Parigi dove frequentiamo una grande scuola di ingegneria. Lì ci siamo conosciuti e l’anno scorso abbiamo cominciato questa idea di business, PanPan. Siamo rientrati in Italia grazie a Centimakers, nel frattempo in Francia seguiamo un percorso di accelerazione di imprese di ACSE che è una business school molto importante a livello europeo e anche mondiale. Ormai siamo con un piede in Italia e uno in Francia.


Cos’è PanPan?
Ci sono quattro milioni di domande geolocalizzate su Twitter. Circa l’80% non ottiene risposta. La gente si pone delle domande su Twitter perché Google non è più sufficiente, perché non sa più rispondere. Per questo abbiamo deciso di realizzare una applicazione che eredita alcuni caratteri di Twitter, per quanto riguarda gli smartphone, e aggiunge un focus su geolocalizzazione e domande e risposte.


Cosa è successo quando vi è venuta l’idea? Siete tutti ingegneri, giusto?
Sì, Antonio è l’unico ad avere delle basi di business. Quindi noi ci occupiamo delle cose più tecniche mentre lui cura cose come il business plan e i contatti.


Non avete dovuto cercare competenze esterne?
In questo momento stiamo facendo tutto quanto noi perché abbiamo le competenze per farlo. Abbiamo frequentato il politecnico di Torino e siamo andati a ingegneria telematica. Questo ci ha permesso di programmare le basi della nostra start-up. Adesso abbiamo una partnership con il Prof. Ceri, che è uno dei massimi esperti di questo tipo di tecnologie. Lui è stato il primo ‘esterno’, oltre al programma di accelerazione francese.


E a cosa vi sono servite queste esperienze?
Ci siamo messi a fare una start-up inconsapevoli di tutto il mondo che ci stava dietro. Noi da ingegneri siamo partiti dallo sviluppo dell’applicazione e contemporaneamente abbiamo lavorato al business plan per partecipare ai concorsi. Andando avanti ti rendi conto che le cose da fare sono tante, marketing, design, service design, business verticale, contatti, un’azienda da mettere in piedi, tutto un mondo con cui non sapevamo come dialogare. Tramite Changemaker abbiamo preso dei contatti strategici. Poi abbiamo trovato un finanziamento, abbiamo ottenuto l’investimento, abbiamo capito come dialogare con gli investitori, e siamo andati avanti. D’altro canto abbiamo sviluppato anche la parte business, in Francia, nell’acceleratore francese che si occupa prettamente di business.


Avete intenzione di svilupparlo con base francese o base italiana?
Stiamo creando la società con almeno due sedi, una in Italia e una in Francia. Adesso l’argomento di discussione è se aprire una terza sede operativa, solo per lo sviluppo del sofware a Catania, da noi. Ci stiamo pensando.


Nel confronto Parigi-Milano, quali sono le mancanze di Milano rispetto a quello che avete trovato a Parigi?
Io non vedo molte mancanze. Anzi, gli italiani sono molto più imprenditori di quanto non lo siano i Francesi. La piccola e media impresa in Italia è molto più sviluppata di quanto non lo sia in Francia. Inoltre l’economia Francese è più solida di quella Italiana ma è molto più tradizionale. Dal mio punto di vista è molto più ancorata ai tipi classici di azienda e meno aperta allo sviluppo di idee sul modello americano.


Ci sono poche realtà di questo tipo in Francia?
In Francia, se ti laurei, se hai un buon profilo, un profilo analogo al nostro, il lavoro lo trovi immediatamente con stipendi impensabili in Italia. Di conseguenza in Italia la gente si da più da fare, e cerca di trovare percorsi più soddisfacenti. L’ecosistema francese è molto più tradizionalista. Quello italiano è forse un po’ più incerto, ma molto più aperto a correnti filoamericane. Questo fa si che in Italia ci sia molto più fermento intorno alle start-up che in Francia. Poi ovviamente Parigi è unica in Europa, insieme a Londra, a livello di quantità di eventi e cose che succedono. Arrivare a Milano però è stato sicuramente importante.


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Elisa Antognini di Younivocal


Cos’è Younivocal? 

È un progetto ideato da Andrea Pace e Francesco di Genova, ingegneri informatici, mentre io mi occupo di comunicazione e marketing, anche se in realtà sono una biologa. Hanno lavorato per molti anni nella sicurezza, e Younivocal è uno strumento per la lotta contro la contraffazione in qualsiasi settore. Produciamo un’etichetta che dimostra che il prodotto è originale grazie a due tecnologie: l’NFC, che permette al cellulare di comunicare con l’etichetta, e la firma digitale. Passando lo smartphone sopra il prodotto, il cliente può vedere se il prodotto è contraffatto o originale, oltre ad altre informazioni come il materiale del capo o la provenienza. Poi i marchi potrebbero usarlo per fare pubblicità in tempo reale.


Quando avete iniziato il progetto? 

L’idea è arrivata quando un nostro amico, che aveva acquistato una giacca di un brand che conosceva molto bene, ha iniziato ad avere il sospetto che il capo fosse contraffatto, ma non poteva dimostrarlo. Andrea e Francesco si sono messi a ragionare su come risolvere il problema, visto che da tanti anni lavorano sulla firma digitale. Hanno avuto l’idea, l’hanno scritta e l’hanno portata all’ufficio brevetti (da cui aspettano ancora risposta). A dicembre ci siamo iscritti a Changemakers, ma l’idea è nata ufficialmente a fine novembre. Infatti quando ci hanno presi eravamo un po’ stupiti, ma quello della contraffazione è un tema molto sentito, solo in Italia si perdono fino a 10mila posti di lavoro a causa di questo problema.


È anche un progetto utilizzabile per altri beni, come per il cibo. 

Sì, anche per i giocattoli… Infatti uno dei nostri problemi era che non sapevamo in che mercato buttarci. L’unica limitazione vera che avevamo era la dimensione dell’etichetta, che era grande come una carta di credito, ma grazie ad alcuni contatti che abbiamo trovato tramite Changemakers stiamo risolvendo anche questo problema.


Il primo prototipo l’avevate sviluppato internamente? 

Sì. Abbiamo anche l’app, poi abbiamo chiesto a dei produttori le certification authority. Ci hanno dato queste schede che avevano tutte le certificazioni nazionali, europee, eccetera, e quindi erano super sicure.


Quindi siete arrivati qua già abbastanza preparati. 

No, no per niente! Il grosso non è questo. Il grosso, almeno per una start-up, è creare il proprio modello di business, quindi fare un business model, un business plan, capire a che target si punti, che per noi è stato una cosa allucinante. La prima settimana che sono arrivata qui parlavano e io non capivo.


Quindi è stato un approccio traumatico al mercato. 

Noi partivamo più indietro di tutti gli altri progetti. Eravamo proprio il “calimero” della situazione.  Il nome l’abbiamo cambiato durante il processo, prima eravamo Brand Security, poi ci siamo cambiati in Younivocal, perché dava di più l’idea di quello che creavamo, rendevamo unico il prodotto. E in più preparare tutto il business plan, il business model, in soli due mesi. Però alla fine noi li dobbiamo solo che ringraziare perché ci hanno dedicato tanto, ci hanno permesso di avere dei contatti che in realtà se no non avremmo mai avuto, poi il progetto rimane a noi.


Adesso che questa esperienza è finita cosa farete? 

Continueremo a creare quest’etichetta, cercheremo di far fruttare dei contatti che Changemaker ci ha fornito e in più cercheremo di creare un prototipo per un brand e di commercializzarlo come prodotto per una città per vedere se la nostra idea funziona veramente. Se è di reale interesse.

 

State cercando degli investitori? 
Sì, stiamo cercando investitori come li stanno cercando tutti. Anche perché il nostro progetto partirà con un prototipo da commercializzare con un finanziamento minore rispetto a quello che servirà per commercializzare la vera scheda. Calcola che per commercializzare la scheda ci vogliono 30.000 euro. Ci serve l’infrastruttura, una server farm, quindi una struttura importante, che costa.


Nel vostro caso gli investitori devono essere i brand o può essere anche qualcun altro? 

No no, può anche essere qualcun altro. Anzi, saremmo anche più contenti se fosse qualcun altro. I brand potrebbero volere un rapporto in esclusiva, e a noi non andrebbe bene. Vogliamo che il progetto sia il più libero possibile.